ANDREA SCANZI SU SPRINGSTEEN

Interessante articolo di Andrea Scanzi su La Stampa di qualche giorno fa (vi consiglio il suo libro Elogio dell’ invecchiamento ) relativamente l’ ultimo lavoro di Springsteen, Working on a dream.

Lavorando sul sogno di Obama
Springsteen eccede in melassa

ANDREA SCANZI

Ogni arte inizia nell’insoddisfazione diceva Ezra Pound, riverberando l’idea per cui le opere migliori nascano dalla sofferenza. Un’idea che viene bene per interpretare Working on a dream, ultimo disco di Bruce Springsteen. Il nuovo Presidente Usa sta lavorando a un sogno, proprio come Bruce, ed è forse questo il punto: com’è e come sarà l’arte americana al tempo di Obama? La sua elezione è stata trasversalmente salutata come una liberazione, quasi un miracolo, rendendo di nuovo attuale perfino l’I have a dream di Martin Luther King. Sogni, sogni e ancora sogni. La soddisfazione politica va però raramente di pari passo con l’epifania artistica. Working on a dream trasuda speranza ed esonda gioia. Pure troppo.

Nessun musicista americano, negli ultimi 35 anni, è stato cartina al tornasole degli Stati Uniti come lui. Ogni disco era uno specchio. Se gli Anni 70 erano stati quelli dei «nati per correre» e dei fiumi sacri, gli 80 erano stati salutati con la povertà pentecostale di Nebraska. Cominciava l’edonismo reaganiano, e Springsteen incideva un disco spietatamente acustico, voce chitarra e una sedia che scricchiola tra un accordo e l’altro. E non era solo la sedia: era l’America intera a scricchiolare, tracimante di una perfezione formale che la privava dei contenuti: Springsteen, nuovo Woody Guthrie, le diceva di tornare ad essere se stessa. Avrebbe continuato a farlo, spesso incantando e a volte inciampando nell’enfasi. Springsteen è uno dei pochi artisti i cui passi falsi non denotano tanto mancanza di ispirazione, quanto smisurata onestà intellettuale. Canta e suona quello che sente. A metà Anni 80 parlò di Vietnam e identità smarrita, ma ebbe la «colpa» di infarcire Born in the Usa di sonorità troppo cafonal e lo fraintesero per commerciale. A fine decennio si presentò pure lui edonista, vestito di Versace sulla copertina di Tunnel of Love: c’erano ballate splendide, nonché sintomatiche, ma al tempo se ne accorsero in pochi.

Tempo, epoche: i punti cardinali del menestrello del New Jersey. Che, smarrita e ritrovata la E Street Band, avrebbe denotato una longevità artistica quasi impensabile. Ora purificandosi nel folk (Devils and Dust), ora tributando Pete Seeger (Live in Dublin). L’ultimo vero capolavoro è The Rising. Nacque dallo sgomento, dalla devastazione dell’11 settembre. Bruce non cantava: piangeva. Ad ogni traccia, ad ogni stazione. Persino quando aspettava un giorno di sole: Waiting on a sunny day. Ed eccolo, adesso, il giorno di sole: eccolo, Obama. Un gran bel giorno, che artisticamente provoca però una overdose di enfasi e miele. Negli arrangiamenti, nei testi. Kingdom of Days è una delle sue canzoni più kitsch. La morriconiana Outlaw Pete frana nei troppi archi. E Queen of the Supermarket, insolito inno alla cassiere, riprende i toni enfatici di Girls in the summer clothes. Nulla da salvare, dunque? Non esattamente. Qualcosa c’è, e sembra dar ragione a Ezra Pound.

La spigolosità blues di Good Eye; The last carnival, dedicata allo scomparso tastierista Danny Federici; la perla The Wrestler, scritta per il film che ha rilanciato Mickey Rourke. Workin’ on a dream funziona quando Springsteen si concede il lusso ideologico di smarcarsi dall’estasi per la vittoria di Obama. Quando finge di non aver ricominciato a credere nel sogno americano. Ma ci crede. E quasi non volendo, ha inciso un altro disco che fotografa il suo paese: qui ed ora.

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